03 novembre 2010

Quando Clay e Bikila si scoprirono liberi di E. Audisio

Cinquant´anni fa l´edizione che incoronò tante star in un clima da Dolce Vita. Il campione della maratona rimase incantato dall´Arco di Costantino. Il pugile vinse dimenticando il razzismo. Tornato negli Usa, gli diedero del negro.
Roma non fece la stupida quella sera. E il mondo disse sì. S´incantò e si innamorò. Dei Giochi, della città, dello sport. Non era ancora tempo per amori misti, soprattutto in America, dove gli atleti neri gareggiavano con i bianchi, ma non entravano negli stessi bar e nemmeno negli alberghi. Per chi aveva la pelle scura c´era l´altra entrata, quella di servizio. Come disse Ralph Boston, vincitore del salto in lungo: «Nel mondo sono un cittadino, ma non nel Mississipi, dove vivo e bevo alle fontane per negri». Roma con la sua indolenza mischiò razze e conflitti, il resto lo fece la storia e la Dolce Vita. Intiepidì tensioni, rese umane le sigle del mondo dell´est, a partire dall´Urss, che appariva lontano e marziano.

La televisione favorì la nascita del mito, tutto il mondo finalmente poteva vedere. Per la prima volta. E il sanpietrino fece capire che il passo dell´uomo veniva da lontano e che ad ogni umanità si doveva rispetto. Pure se povera, affamata, scalza. L´Africa proiettò e ingigantì la sua ombra con Abebe Bikila*, primo nero di quel continente a vincere una maratona olimpica, la prima in notturna, la prima a iniziare e finire fuori dallo stadio. Una scoperta: c´era un etiope di 28 anni, scalzo e sconosciuto, guardiano dalla casa imperiale del Negus, nei panni dell´antico romano. Bikila passò accanto a quell´obelisco di Axum che il fascismo nel ´37 aveva sequestrato all´Etiopia e si prese una serena rivincita a nome del suo popolo. «Per poco non mi incantavo a guardare l´Arco di Costantino, non ho mai visto niente di più meraviglioso e sono contento di averlo visto durante la notte più bella della mia vita». Sull´Appia Antica le fiaccole rendevano meno buia la notte e l´Arco di Costantino era illuminato con riflettori gialli e rossi. Bikila, uno scheletro nero che danzava sulla terra, non mollò e vinse. E mostrò che la nostra Africa era soprattutto la loro. Senza scarpe, ma non sottomessa: con gambe e polmoni per andare lontano. Doveva solo essere messa in condizione di correre libera.

Un altro nero salì in cima al mondo. Si chiamava ancora Cassius Clay, aveva 18 anni, gareggiava nei pesi leggeri. Veniva da Louisville, aveva paura di volare, tanto che viaggiò con il paracadute. E non aveva mai visto un bidet, lo scambiò per un bizzarro dispensatore di acqua, infatti si mise a bere, domandandosi come mai fosse così basso. Al giornalista sovietico che gli chiedeva come mai non potesse entrare nei ristoranti un fiero Clay rispose che in America tutti mangiavano molto e che le automobili erano bellissime. Era fiero della sua medaglia, non la lasciava mai, ci andava perfino a letto. Poi nel viaggio di ritorno a casa gli venne voglia di mangiare un hamburger e un frullato di vaniglia. Ma il servizio gli fu rifiutato. «Sono Cassius Clay, il campione olimpico, ecco la mia medaglia d´oro». Il proprietario gli rispose con un deciso: «No niggers». Una banda di motociclisti arrivò a rendere più violento il concetto. Clay e un amico lottarono, si difesero, vinsero. Ma Clay sul ponte buttò la medaglia nel fiume Ohio. «La guardai con disaffezione. Roma era lontana, e io non ero più un all-american boy».


Ma Roma si fece soprattutto prendere in mano dalle donne. Svelò le australiane, quelle che nel nuoto facevano cose dell´altro mondo. Dawn Fraser, 19 anni, prima donna a difendere il titolo olimpico conquistato quattro anni prima, si presentò imbattuta. Veniva da un ambiente proletario, era la più piccola di otto figli, sapeva farsi largo, e dire parolacce. Prese a cuscinate una compagna sgradita, si fece un piatto di spaghetti prima della gara, che naturalmente vinse, andò a comprarsi un abito da sposa senza doversi sposare, finì in galera per aver rubato una bandiera. Un talento da 42 pulsazioni al minuto e un fenomeno di prepotenza. Roma alla fine mischiò e pasticciò i sentimenti, sedò molte mischie a tavola, si affidò alla sua pigra normalità, rallentò ogni pericolosa incubazione. Non fu stupida per niente.


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*Una cosa che mi affascina molto della figura di Bikila è la tecnica usata in fase di gara. L'etiope porta un nuovo modo di correre la maratona: attacca, nella consapevolezza di avere sufficienti riserve per portare a termine la gara in condizioni accettabili. Rompe con la tradizione della maratona difensiva alla Dorando Pietri.
Curioso è che Bikila in realtà ingaggia una sfida contro un fantasma. Il suo obiettivo infatti è quello di non far scappare il numero 26, Rhadi, che invece parte con il 185. Bikila stando nel gruppetto in fuga, non lo vede e pensa che sia più avanti di lui.

3 commenti:

  1. Che racconto appassionato!
    Oggi Roma sembra molto più l'America di Clay, ma la Roma che racconti è una città di cui andarne fieri!

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  2. Si è vero, questo articolo mi è piaciuto per questo. E' bello vivere con tanta passione, è bello poterne andare fieri. Io penso che se ognuno di noi va oltre la decadenza che abbiamo davanti e nella sua vita mette tutta questa passione, allora anche noi italiani per una volta non saremo stupidi per niente ;-)
    Grazie per aver scritto.
    Ti auguro una giornata appassionata ;-)
    Matilda

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  3. Io credo che la vita vada vissuta con passione, altrimenti non ne vedo alcun senso: sarebbe come aspettare di morire per vivere!

    Io sono fiero di essere Italiano e non mi reputo stupido. Che molti altri lo siano, in un certo senso, non è una cosa che mi riguarda. Il rapporto è lo stesso che con la passione: che molti vivano per sopravvivere non significa che io faccia lo stesso.

    Io vivo con passione la mia vita con quelli cui voglio bene e che ne fanno parte. Gli altri li lascio sopravvivere.

    Auguro anche a te una giornata appassionata e ricca di stelle!

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